Menone
chiede a Socrate se sia possibile insegnare la virtù. Secondo Menone il
concetto di virtù è relativo ed è funzione della condizione sociale e
occupazionale. Socrate obietta che debba esistere un qualcosa di comune tra le
varie virtù. Menone allora considera come definizione generale la capacità di
saper comandare. Socrate rileva però che un servo non potrebbe mai essere
virtuoso se la virtù consistesse proprio nel comandare gli altri uomini. Menone
concepisce allora la virtù come la capacità di desiderare le cose belle, cioè
buone e grandi, e nel sapersele procurare secondo giustizia. Il ragionamento
pecca di un circolo vizioso poiché la giustizia è una parte della virtù.
Socrate afferma che la virtù è una qualità posseduta dall’anima. Inoltre la
virtù, se è insegnabile, deve essere scienza. La virtù richiede ragionevolezza,
conoscenza e sapere. La virtù non può essere posseduta in maniera innata ma
deve essere trasmessa e per questo la si può definire scienza. Difficile però è
stabilire chi sia in grado di insegnarla. Socrate allora afferma che essa è una
sorta di ispirazione divina con la quale l’uomo che la possiede
inconsapevolmente guida il popolo in modo retto. Il dialogo platonico si
conclude con l’esposizione della teoria della conoscenza. A tale proposito
Socrate dice che l’anima è immortale e quando il corpo che la possiede muore,
essa va nell’Ade, da dove fa ritorno dopo un certo tempo entrando in un altro
corpo. In questo lasso di tempo l’anima ha conosciuto tutto e quando prende posto
in un altro corpo, dimentica tutto. Tuttavia la conoscenza acquisita è latente
in essa e per risvegliarla l’uomo deve ricercarla e può ritrovarla in ogni
momento.
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