La morte corporale è quell’evento per
cui lo spirito dissolve i suoi legami con il corpo e riacquista la sua primitiva
specificità, cioè torna ad essere etereo quale era all’atto della sua
creazione. Nella Bibbia ciò trapela in alcuni passi, dove è sottolineata la
relatività della natura umana. Giobbe, sottoposto ai tormenti di Satana,
ricorda che l’uomo nasce nudo e torna nudo al Padre, come se lo spirito umano
si spogliasse di tutto quello che è immanente e contingente. In Qoèlet il
sentimento della morte, vissuta come separazione da ciò che è terreno, è
profondo e fonte di turbamento. (Qo 3,1-22). ‘Tutto è venuto dalla polvere e
tutto ritorna nella polvere’: da tale constatazione deriva una coscienza
spiccata della precarietà di tutto ciò che non risulta dalla sottomissione
alla volontà di Dio e quindi un invito a vivere la vita con maggiore
consapevolezza delle leggi divine, nonché ad affidarsi massimamente alla
Provvidenza, senza troppi legami con la ricchezza che deriva dall’operare dell’uomo.
Occorre quindi pensare al beneficio futuro che l’uomo potrà ricavare in
quanto essere spirituale e non alle tribolazioni contingenti, perché, come è
scritto, ‘là dove c’è il tuo tesoro ci sarà anche il tuo cuore’. (Mt 6,
21) Nel libro della Sapienza la morte assume tutta la sua solennità di evento
paradigmatico per la vita dello spirito, quando i giusti e gli empi si
presentano al giudizio divino (Sap 4,7-5,23). Non ci deve essere timore della
morte prematura se si è vissuto una vita immacolata al cospetto di Dio. All’empio
invece è riservata una fine crudele, perché il giudizio divino depone a suo
sfavore, evidenziando tutte le colpe commesse e commisurando il meritato
castigo. Alla serenità del giusto si contrappone lo sconforto dell’empio, che
non trova pace una volta tornato nella vita di spirito. Al primo è riservata
una gloriosa ricompensa, al secondo una esemplare punizione. Anche nei Salmi il
castigo e la ricompensa sono coronamento di quello che al momento della morte è
giudicato buono o cattivo delle azioni compiute durante la vita: gli uomini
retti vedranno Dio (Sal 11,7), che, dall’alto del Suo trono, renderà
giustizia a chi è stato ingiustamente oltraggiato (Sal 9-10) In sintonia con
quanto sopra descritto è il catechismo di Pio X, secondo il quale alla fine di
questa vita ci attende il giudizio particolare, che precede il giudizio
universale proprio della fine dei tempi. Artefice di tale giudizio è Gesù,
che, con il sacrificio della croce, si è reso degno agli occhi di Dio di
giudicare l’umanità sottoposta al giogo della prova. Dice San Giovanni
Battista che è proprio Gesù l’eletto designato a tenere il ventilabro, ‘per
pulire la sua aia e raccogliere il grano nel granaio e bruciare la pula nel
fuoco della Geenna.’ (Mt 3,12) La centralità del Messia nel giudizio al
momento della morte non deve essere però un motivo di paura e sfiducia nei
confronti dell’Unigenito, che peserà con sapienza le opere da noi compiute.
Al contrario, quanto detto deve essere uno sprone ad adoperarsi sempre di più
all’edificazione del Regno dei cieli, ricordando, con San Paolo, che Cristo ci
ha riconciliati al Padre per mezzo del Suo sangue e che Egli è inesauribile
fonte di grazia per coloro che lo accolgono con fede.
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