CaroCaro
Leonardo, ti ringrazio e mi scuso. Ti ringrazio per l'opportunità che ci
dai aprendo la discussione col porre la domanda "Chi decide cosa è
giusto?", che è la questione centrale della filosofia; mi scuso per
la fretta con la quale rispondo (domani, o meglio, oggi, tra poche ore, ci
torneremo ad incontrare, e bisogna rispondere prima. Quanto dico in questa
parentesi è esemplare di tutto il discorso. Se ti rispondo dopo, non ho
colto l'urgenza della tua scrittura, farò sì che tra di noi, al prossimo
incontro, ci sarà una questione aperta, e tutto quello che sarà detto e
fatto con quest'ombra dovrà fare i conti. Giusto in questo caso è
tentare una risposta per una domanda impossibile, una domanda che chiede
della verità, della sua enunciazione, del suo rapporto alle cose. Andiamo
per gradi). Provando a dispiegare la tua domanda tu chiedi del fare giusto
in differenti accezioni: . giustizia come discorso valutativo del proprio
interesse; . giustizia come osservanza alle leggi naturali - e qui ti
accorgi che il piano dell'universale vive di contraddizioni, per cui
l'interesse, se è espressione dell'interesse individuale, è un interesse
che vive di conflitti, il mio come non-tuo; . giustizia come pensiero,
come discorso di verità - e anche qui, quello che dici dei filosofi che
sostengono cose opposte è conflittuale perché posto sul piano della
singolarità; . giustizia come orizzonte del parlare individuale,
singolare, come dispiegamento dell'IO. ma tentiamo brevemente una
trasformazione dando una risposta secca alla tua domanda: L: - Chi decide
cosa è giusto? i: - giusto è operare bene, rettamente. L: - cosa è
bene? perché rettamente? i: - rettamente è nella sua accezione figurata,
come modo di dire, come decostruzione non ancora compiuta; bene è
conformemente alla natura della cosa L: bene è essere mangiati perché
conigli? i: - bene è essere mangiati quando non si riesce più a
scappare, bene è il coraggio di sapere di dover morire perché VIVENTI.
Il vivente, in filosofia, è il mortale, perché questa è la soglia che
la coscienza non può sperare di oltrepassare con il discorso, perché
così chiamavano loro stessi i greci, gli uomini, i mortali. Per emergere
da questo piano della singolarità, dal singolo come cardine del discorso,
e quindi per abbandonare l'aspetto necrofilo della filosofia, c'è da
andare più a fondo nelle tue domande e capire perché non si può
abbandonare immediatamente l'io quale unità discorsi in favore del noi.
Il noi ci permette di sviluppare un altro pensiero, ci permette di vedere
le cose dall'interno; se siamo capaci di pensarci filosofi, noi filosofi,
abbiamo da pensarci come portatori di verità in una società che fa tutto
fuorché curarsi della verità, in qualsiasi accezione la si intenda, a
partire dalla giustizia, in quanto giustizia sociale. L'io è il motore, e
non può essere immediatamente abbandonato, perché è ciò che attesta
l'identità tra il pensiero che è pensato e la voce che si fa carico di
esprimerlo, rappresentarlo; quello che si pensa è il proprio pensiero, il
proprio collegamento sinaptico, e non è comune, comune è il dirlo, il
dirlo a partire dalla voce propria, perché la comunità va scoperta,
costruita, non è mai data, è solo nel darsi che è presente. Parlando
impariamo a conoscerci, a condividere, o come dice un mio amico a
con-moltiplicare, i sentimenti, a intenderci sulle esigenze comuni, ad
intessere del tempo insieme, ad essere amici. Per parlare c'è da parlare
correttamente, secondo il canone condiviso, e che esista solo la comunità
scientifica è il pregiudizio dei falsi dottori che nell'autoreferenzialità
cercano di nascondersi al prorio io che li invita ad esprimere il 'loro'
pensiero; la comunità scientifica è una delle comunità, esistono
comunità in cui l'espressione linguistica si fonde con le forme
espressive del corpo, come il teatro, o come quelle degli affetti, in cui
è il linguaggio ad essere piegato sulla tonalità per scoprire che nelle
parlate una parola è definita dal contesto. Nella comunità filosofica,
si finisce per rimanere da soli, nel senso che ogni filosofo ha il suo
pensiero, la sua lettura e la sua proposta, ma questo non è del tutto
vero, perché il nome del filosofo è singolare, ma la sua filosofia, se
è tale, sprigiona una scuola, un'induzione al pensare che si manifesta -
storicamente - come scuola. Non c'è filosofo senza allievi, non c'è
verità senza comunità. La filosofia vuole essere scienza - sapere certo,
vincolante - e allo stesso tempo si presenta come espressione artistica,
vera per l'autore e per il suo pubblico - chi capisce. La filosofia è una
tradizione letteraria, noi la possiamo conoscere e oggettivare nelle opere
che ci si offrono, ma non la si può circoscrivere all'aspetto letterario.
I filosofi sono gente curiosa, trovano domande, non risposte, e per fare
questo chiedono, chiedono in continuazione. La tua scrittura in quanto
domanda si iscrive in questa tradizione, e chiede a tutti noi un
pronunciamento, una dichiarazione, un gesto poco filosofico. Ed allora,
per me giustizia è: agire secondo sapere. cosa sia azione e cosa sia
sapere sono altre domande però.
|