Il romanzo di Truman Capote, la cui storia redazionale è raccontata
dal film di Bennett Miller, iniziò l’era di quello che l’autore chiama non
finction novel, romanzo basato su fatti realmente accaduti. A chi si appresta a
scrivere qualcosa sul film, in cui Philip Seymour Hoffman è paurosamente bravo,
tale da sembrare il clone di uno dei più geniali intellettuali dell’America
del secondo dopoguerra, appare scontato concentrarsi su tutti gli elementi che
conducono ad una valutazione obiettiva della pellicola. Ma appena visto il film
e ragionato sui tratti caratterizzanti la sceneggiatura e le scelte di regia,
non si può fare a meno di riprendere in mano quel meraviglioso capolavoro che
è In cold blood (A sangue freddo). E si comprende che solo intrecciando film e
romanzo si possono capire entrambi, mettendo in relazione la messa in scena dell’esperienza
della scrittura di Capote e la scrittura stessa. Tutto nasce quando un “multiple
murder” avvenuto in Kansas nel novembre del 1959, in cui una tranquilla
famiglia americana, i Clutter, viene barbaramente trucidata, a prima vista senza
motivo. Nel romanzo Capote ricostruisce in modo cristallino e limpido sia l’atmosfera
del Kansas, con le sue distese di grano e i suoi piccoli paesini (non a caso nel
film alla prima lettura pubblica del libro l’autore legge le prime pagine in
cui si descrivono le praterie del Kansas), sia la “perfezione” della
famiglia Clutter, dotata di ogni virtù e pregio: religiosità, devozione,
altruismo, astensione dai vizi. Questo aspetto, che nel film non viene
riprodotto, dà modo all’autore di sconvolgere ancor di più il lettore nel
trovarsi di fronte all’assassinio, che egli non nasconde dietro la forma del
“noir”, ma lo getta nella storia senza mediazioni. Difatti parallelamente
alla serena vita dei Clutter e della loro cittadina Holcomb è raccontata la
storia del progetto criminale di Dick Hickock e Perry Smith. Quando legge dell’omicidio
Capote si precipita immediatamente in Kansas per cercare di ricostruire col suo
geniale intuito la storia, e nel film si ha subito l’impressione che la
partecipazione ad un evento del genere cambia gli animi, e così succederà. La
fosca notizia dell’omicidio non può che sconvolgere una serena comunità, in
cui la paura e il terrore, oltre il sospetto che ognuno possa essere stato l’autore
del tragico evento, prendono il sopravvento. Stupende nel libro sono le tre
pagine in cui viene descritta la reazione di Myrt Clare, postina della città,
che ha “esaurito” tutta la paura e il dolore con la morte del marito, e
sospetta su chiunque, perché l’invidia e la malvagità delle persone è
infinita e ognuno non è che un nulla, che può essere spazzato via in qualsiasi
momento: «se qualcuno vuole tagliarmi la gola, gli auguro buona fortuna».
Questa è l’America. Ma chi ha ucciso i Clutter e perché? Nel romanzo la
storia e l’evoluzione criminale-psicologica dei due complici diviene sempre
più incalzante, benché non si comprenda, se non a fatto compiuto, perché i
due malviventi abbiano deciso di derubare un casa in cui, per abitudine del
signor Clutter, non ci sono mai soldi, visto che tutte le transazioni del
capo-famiglia vengono fatte con assegni. Ma questo è bello scoprirlo leggendo
le bellissime pagine in cui viene ricostruito il “movente” con una capacità
letteraria che pochi scrittori del Novecento posseggono. Sicuramente la
personalità più interessante è quella di Perry Smith, autore unico di tutti
gli omicidi di casa Clutter (cosa che nel film non traspare mai), ragazzo per
metà indiano vissuto nella tragedia di una famiglia distrutta dall’alcolismo
della madre e dalla lontananza e incapacità di comprendere del padre. Nel film
è subito evidente che l’intenzione di Capote è capire come e perché sia
potuto accadere un fatto del genere, e tutto ciò si può chiarire solo entrando
nelle maglie della solitudine di Perry, che è convinto di avere intelligenza e
talento, che il padre, la madre, le suore, il mondo intero non hanno fatto che
soffocare fin dalla nascita. E quando si ha un destino così nessuna “virtù”
è una difesa. Quando i due vengono catturati, grazie alla “soffiata” di un
ex compagno di cella di Hickock (e non solo per una storia di assegni falsi come
il film fa credere), il film e il romanzo si congiungono nel lasciare la stessa
sensazione nella scena dell’arrivo dei due assassini al Tribunale della
cittadina di Garden City. Un’atmosfera eterea, silenziosa, che nasconde lo
stupore dei cittadini della piccola comunità del Kansas nel vedere in “carne”
e “ossa” gli artefici di tale crudele gesto. Il Capote del grande schermo
rimane basito di fronte agli occhi, persi nel nulla e pieni di vuoto, di Smith:
uno sguardo da studiare, fondamentale per il suo libro. Qui inizia il supplizio
del romanziere, il cambiamento radicale e lo sconvolgimento psicologico che
caratterizzerà la sua vita da quel momento in avanti. Difatti, dopo la condanna
unanime alla forca dei due assassini, egli si affanna a posticipare, ingaggiando
avvocati su avvocati, l’esecuzione della condanna a morte. E questo egoistico
prolungamento della fine (che di certo non dispiace ai condannati), funzionale
per poterne scrivere un romanzo, viene assorbito “traumaticamente” nell’anima
di Capote, come l’aprirsi di un vuoto immenso, che finora la sua complessa
personalità e la narcisistica sicurezza di essere “geniale” aveva celato
nella profondità del suo animo. Ed il film nel rappresentare il progetto
egoistico di Capote mostra le sue doti migliori, perché gioca continuamente a
cercare di “presentare” la “falsa” indifferenza del romanziere, che
fugge invano al suo coinvolgimento, tanto da dire bugie sull’uscita del libro
perfino al protagonista: Perry Smith. Ma perché la storia dei Clutter devasta
in modo così forte Capote? Nell’apprendere tramite i suoi racconti la vita,
la famiglia, le disavventure, le paure, le angosce e i progetti di Perry, lo
scrittore capisce che i due hanno in comune un elemento fondamentale: la stessa
devastante infanzia, che nel caso di Smith, è una delle cause della sua
personalità inquieta. Da ciò il romanziere si rende conto che la vita è un
fatale gioco in cui ognuno cerca di dare voce alle proprie emozioni positive e
negative nel modo che può (Capote con la scrittura), ma c’è anche chi si
sente gettato nella solitudine e immischiato nel proprio dolore a tal punto che
“crede” che far pagare a quattro innocenti la colpa della sua sofferenza sia
l’unico modo per redimersi (come Smith). Perry e Truman divengono così due
facce della stessa medaglia che fuggono, uno coi libri e l’altro con la
violenza, il proprio dolore. La devianza che ha portato Smith a quella
situazione, può essere una possibilità presente anche in lui, e questo non
può che segnare profondamente l’animo di chiunque. Quando finalmente, dopo 6
anni, i due verranno giustiziati, la vita del romanziere è distrutta, benché
il frutto del suo lavoro sia un successo e un capolavoro inarrivabile. Rimangono
alcune discrepanze tra il film e il libro, che però non intaccano la qualità
della pellicola. Tanto per citarne una nel film al momento dell’impiccagione
è Smith che stringe la mano ad Al Dewey, il poliziotto amico dei Clutter che si
è occupato del caso, invece di Hickock. Sicuramente la scelta di rendere ancora
più complessa e meno cupa la figura di Smith sul grande schermo è distante
dalle intenzioni espresse nel romanzo, ma ciò sembra essere funzionale all’intenzione
di suscitare ancora più inquietudine nello spettatore che cerca di decifrare la
figura del carnefice. Nel romanzo invece è più coerente, per come Capote ha
descritto le due figure degli assassini, il fatto che sia Hickock a stringere la
mano a Dewey, che alla fine è quello che li ha scovati, scoperti e messi in
galera, per essere mandati alla forca. Allora ci si potrebbe chiedere perché
Hickock stringe la mano a chi lo ha mandato, indirettamente, sul patibolo? Tutto
si scopre nelle ultime pagine in cui egli si dichiara convinto della giustezza
della pena di morte, specie in certi casi (come il loro), benché sia ovvio che
cerchi ogni strada per poterla evitare, anche perché è stato Smith a premere
ripetutamente il grilletto nella calma notte del novembre del 1959. In
conclusione A sangue freddo, il film come il romanzo, mostra le contraddizioni
di uno scrittore che, credendo di poter svolgere il ruolo dell’osservatore
equidistante dalle cose, si ritrova immischiato con la sua intelligenza e la sua
scrittura nel profondo baratro dell’esistenza, la propria e quella degli
altri.
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